9. Friedrich von Gärtner, architetto del Pompejanum
Friedrich von Gärtner nacque a Coblenza il 10 dicembre 1791 (sebbene alcuni testi riportino una data diversa). Suo padre Andreas era un capocantiere di Corte. Nel 1804 la famiglia si trasferì a Monaco e in quella città, dal 1808, frequentò la facoltà di architettura presso l’Accademia di belle arti ove fu allievo di Karl von Fischer, terminando gli studi nel 1812. Si recò quindi in viaggio d’istruzione prima a Karlsruhe e poi a Parigi, ma l’architettura francese lo deluse ed il 22 ottobre 1814 lo troviamo a Roma, ove Martin von Wagner, fiduciario di Ludovico I, gli fece da tutore e lo introdusse nella confraternita dei nemesiani, un cenacolo di artisti che si contrapponevano ai nazareni.
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Il nostro visitò da subito le rovine di Roma rimanendo colpito soprattutto dalla loro imponenza, mentre gli edifici del Rinascimento e dell’epoca barocca, compresa la basilica di San Pietro, lo lasciavano indifferente. Parimenti compì numerose escursioni nella campagna romana, ammirando la bellezza della natura e del paesaggio. Ancora indeciso se divenire un pittore od un architetto, in una lettera ai genitori del 4 ottobre 1815 scelse quest’ultima carriera e nel maggio del 1816 iniziò l’agognato viaggio in Sicilia. Per prima cosa fece tappa a Napoli, e colse l’occasione di visitare Pompei, affermando, in una lettera a von Wagner del 26 maggio 1816, che quegli scavi archeologici valevano da soli il viaggio dalla Germania.
In compagnia di altri artisti approdò a Palermo il 4 giugno 1816, e la comitiva salì subito sul monte Pellegrino. Il 12 giugno lasciarono Palermo e toccarono dapprima Monreale, quindi Segesta, Agrigento, Enna e Siracusa, infine Catania. Il giorno 8 luglio salirono sull’Etna. A settembre fu tempo di tornare a Roma, ma prima si concessero un’altra sosta a Napoli.
Il viaggio si dimostrò davvero fruttuoso: nel 1819 pubblicò una dispensa composta di dieci fogli con vedute di templi greci in Sicilia e altri sei con le piante degli stessi. Nel 1824 pubblicò una seconda dispensa, ove erano riprodotte in dettaglio le ornamentazioni di alcuni edifici romani.
Nell’estate del 1817 tornò a Monaco. Questi anni furno segnati dalla rivalità con Leo von Klenze, altro architetto che godeva i favori di Ludovico. Dopo un viaggio a Londra nel 1819 le novità non tardarono: nel 1820 ebbe la cattedra accademica che era stata del suo maestro von Fischer e nel 1822 divenne direttore della manifattura di porcellane di Nymphenburg. La sua ascesa come architetto cominciò tuttavia nel 1827, quando Ludovico, ormai re, lo incaricò del progetto della Biblioteca statale di Monaco sulla Ludwigsstrasse, che sorse negli anni dal 1832 al 1843 su modello di palazzo Pitti. Accanto alla Biblioteca, von Gärtner edificò la chiesa di San Ludovico (1829-1844), in stile romanico con due campanili bizzarramente coronati da cuspidi gotiche. Di fronte a questi due edifici, il Nostro costruì, sempre in stile neorinascimentale, l’Istituto per ciechi (1833-1835), la Fondazione delle dame di carità (1835-1839) e il Direttorato delle saline (1838-1843).
All’estremità nord della Ludwigsstrasse si apre la piazza dell’Università, anche questa sistemata da von Gärtner, il quale progettò non solo la sede dell’Ateneo (1835-1840), il Seminario (1835-1840) e il Liceo femminile (1837), ma anche le due fontane (1840) e l’Arco di Trionfo (1843-1854) che chiude uno dei lati. Quest’ultimo è ispirato all’Arco di Costantino e dedicato all’esercito bavarese. Le decorazioni sono costituite da sculture su disegno di Martin von Wagner: sei bassorilievi circolari che simboleggiano le province bavaresi, otto dee della Vittoria su colonne corinzie, quattro rilievi di battaglie vinte dai bavaresi e una grande quadriga alla sommità.
All’estremità meridionale, la Ludwigsstrasse è invece conclusa dalla Feldherrnhalle (1841-1844), un monumento simile alla loggia dei Lanzi e destinato ad ospitare le statue di due condottieri che salvarono la Baviera.
La sistemazione urbanistica del centro di Monaco fu tuttavia intervallata da un’altra importante commessa, la costruzione della reggia di Atene per Otto, il nuovo re di Grecia. I lavori iniziarono a gennaio del 1836 ma von Gärtner non ebbe la possibilità di seguirli personalmente, e rivide Atene solo dal 23 novembre 1840 al 24 marzo 1841 per provvedere alla decorazione degli interni, incombenza che non volle demandare ad altri.
L’esterno dell’edificio, assai severo, interpreta liberamente lo stile dorico ma gli appartamenti privati, il salone da ballo, la stanza da gioco e quella da pranzo furono riccamente decorati con pitture parietali in stile pompeiano, scelta di sicuro curiosa poichè la Grecia antica vantava comunque una grande tradizione pittorica, mentre la sala del trono presentava un più consono fregio monumentale con la guerra d’indipendenza dei Greci contro i Turchi.
Fino al 1909 il palazzo mantenne la funzione di reggia, quando fu devastato da un incendio che provocò la perdita di tutte le opere d’arte sopra descritte costringendo addirittura all’abbandono dello stesso. Nel 1922 le rovine furono messe frettolosamente in sicurezza affinchè accogliessero i Greci fuggiti dalla Turchia. Alla fine degli anni 1920 se ne decise la ristrutturazione, condotta nello scrupoloso rispetto delle facciate, e nel 1934 l’edificio divenne la sede del Parlamento greco, e lo è ancora ai giorni nostri.
Come accennato, nel 1840 iniziarono i lavori per il Pompejanum, che proseguirono fino al 1848. Nel maggio del 1846 fu posta la prima pietra di un’altra residenza voluta da Ludovico I, la Ludwigshöhe (che si trova però nella Renania-Palatinato), anche questa su progetto di von Gärtner. Si tratta di una villa di due piani a pianta rettangolare con cortile centrale, con facciata che richiama la reggia di Atene e interni decorati anche stavolta in stile pompeiano, ma da Leo von Klenze.
La morte, giunta il 21 aprile 1847, impedì a von Gärtner di completare la sua ultima fatica, un palazzo per l’erede al trono di Baviera *13 Il Pompejanum fu ultimato dall’architetto Andreas Klumpp.
10. La realizzazione del Pompejanum
Nell’opera poetica di Ludovico I si ritrovano alcune poesie dedicate ai luoghi oggetto del presente saggio, ed è plausibile che altre siano rimaste inedite.
Il sovrano dedicò a Pompei una sua lunga composizione (Pompeji), che tuttavia non deve essere considerata tra le sue migliori. Sono ben più felici il distico in cui esorta a studiare il modo di vivere degli antichi Romani non sui libri ma esaminando le rovine di Pompei (Kennenlernung des altrömischen Lebens) e l’ode ad Aschaffenburg (An Aschaffenburg), in cui afferma di sentirsi a casa in tale città e di averne voluto imparare il dialetto.[1]
Il sovrano espresse questo amore per Pompei assai prima di ordinare la costruzione del Pompejanum. Durante il viaggio in Italia nel biennio 1817-1818 fece eseguire dal vivo al pittore Johann Georg von Dillis (1759-1841), che faceva parte del suo seguito, un acquerello raffigurante gli scavi di Pompei. Nel 1829 incaricò Georg Friedrich Ziebland (1800-1873) di decorare in stile pompeiano quattro stanze di villa Malta.
La sala da pranzo doveva essere decorata in rosso, la camera da letto del re in verde, con ritratti di Apollo e delle nove Muse, e due stanze più piccole in viola e in bianco.
Nella sala da pranzo, nel registro superiore spiccano sulla sfondo rosso pesci, volatili ed ortaggi, in quello inferiore composizioni di frutta alternate ad uccelli. L’opera maggiore è comunque un affresco: a sinistra notiamo una baccante e Bacco che coglie un grappolo d’uva per darlo ad un fanciullo; nel mezzo Pan che suona il flauto innanzi ad una menade e ad un amorino; a destra una coppia seduta che insegna ad un fanciullo a suonare il flauto.[2]
La posa della prima pietra avvenne ad opera di Ludovico I in persona il 10 giugno 1843.[3]Per von Gärtner, la casa dei Dioscuri rappresentava un modello cui ispirarsi, non da copiare pedissequamente, difatti esistono alcune differenze. Il Pompejanum presenta maggior spirito di simmetria; in particolare gli angoli della costruzione sono retti mentre ciò non avviene nella casa dei Dioscuri, che sorgendo in un vicolo doveva adattarsi alla mancanza di spazio. L’originale presenta, nell’atrio, cinque colonne per lato e l’edificio di von Gärtner solo quattro. Inoltre la casa dei Dioscuri consta del solo pianterreno, il Pompejanum di ben tre elevazioni. Altre case pompeiane cui von Gärtner potrebbe essersi ispirato sono la casa dell’Ancora e la casa degli Amanti, che presenta un piano superiore.
Il capo cantiere fu il professor Carl Ludwig Louis (1793-1854). Per ordine di Ludovico I, von Gärtner e Louis nel 1844 si recarono a Pompei per ulteriori studi e misurazioni insieme con il pittore Joseph Schlotthauer (1789-1869). Anche Martin von Wagner collaborò all’arredamento del Pompejanum ed affidò la realizzazione dei mosaici a Giovan Battista Chiochetti, che lavorò a capo di una vasta officina.
Allo scopo di studiare l’utensileria romana nel 1844 von Wagner si recò a Napoli con Wilhelm Hopfgarten, uno scultore, e lì incontrò von Gärtner. A seguito di tale viaggio, Hopfgarten realizzò la statua del fanciullo che corre per la fontana dell’atrio e molte repliche di oggetti di bronzo che per fortuna ci sono pervenuti.
Dal 1845 al 1847 Joseph Schlotthauer iniziò le prove per dipingere le facciate mentre cornicioni, fregi e capitelli erano realizzati da Joseph Hautmann, Anselm Sickinger e Johann Baptist Scholl. Nel 1847-1849 si intonacarono gli interni e poi li si dipinse. I pittori furono Joseph Anton Schwarzmann (1806-1890), Friedrich Christoph Nilson (1811-1879) ed Emil Theodor Richter (1801-1878), il quale realizzò le pitture del Viridarium nel 1850. Nel 1850-1851 Valentin Hofmann fece le guarnizioni di bronzo delle porte. L’edificio, ormai completo, era stato costruito a spese dello Stato bavarese al costo complessivo di 250.000 fiorini. Tuttavia molti affreschi, a causa del clima umido ma anche di scelte poco opportune nella tecnica di esecuzione, cominciarono presto a deteriorarsi e già nel 1887 erano bisognosi di restauri, che furono affidati per ben quaranta anni al pittore Adalbert Hock (1866-1949).
Negli ultimi mesi della II Guerra Mondiale il Pompejanum fu devastato dai bombardamenti, che causarono la perdita quasi completa delle pitture murali e dei mosaici, però mancavano i fondi per il restauro e ci si limitò alla semplice messa in sicurezza dell’edificio, per prevenirne il crollo.[1]Nel 1960 si riuscì comunque a ricostruire i muri dell’atrio e a rifare, nel 1961-1963, il tetto con lastre di rame ed a intonacare le facciate. Nel 1964 si rifecero le pitture parietali del Viridario ma solo a partire dal 1982 si procedette ad un restauro globale. Le ricerche per appurare l’aspetto originario furono affidate ad Alfred Walter e Heinz Gellner. A seguito di un pubblico concorso, dal 1989 il pittore Klaus Staps restaurò le pitture parietali lavorandovi per dieci anni e il 24 agosto 1994, anniversario della distruzione di Pompei, si poteva riaprire al pubblico il pianterreno e nel 2002 alcune stanze del piano superiore, ma si dovette attendere il 3 aprile 2009 per la riapertura totale dell’edificio. In alcune stanze si sono volutamente lasciati, quale monito alle generazioni future, i danni provocati dalla guerra.
L’edificio si erge su un terrapieno che funge da terrazza sul Meno e che è formato da un muro di mattoni. L’ingresso principale, che introduce nell’atrio, è sul lato orientale. Il primo piano non copre tutto il pianterreno, e il secondo piano è costituito da una sola loggia con ampie finestre che costituiscono un evidente anacronismo, in quanto le case romane ne erano sprovviste. Sono pure creazioni moderne la scala esterna sul lato sud lungo il fiume, che conduce dal pianterreno al primo piano, e il balcone coronato da un timpano sorretto da colonne ioniche che notiamo accanto alla suddetta scala. Sotto questo balcone si apre un ingresso secondario decorato con un mosaico pavimentale (ricostruzione postbellica), imitazione del famoso mosaico pompeiano del cane da guardia.
Come accennato, l’ingresso principale si apre sul lato est ed è fiancheggiato da tre feritoie; la porta mostra battenti di bronzo in forma di testa di leone.
Ludovico I aveva voluto dotare il Pompejanum di un giardino piantumato con vegetazione mediterranea, tra cui un vigneto sulla riva del Meno, il cui primo giardiniere fu Maximilian May.
Dall’ingresso principale si accede al Vestibulum, ove ci sono le raffigurazioni di Castore e Polluce quali domatori di cavalli. In origine erano copie delle pitture della casa dei Dioscuri, e sono state ricostruite nel restauro del 1994.
Dal Vestibulum si accede all’Atrium, anche questo del tutto distrutto e ricostruito. A differenza che nelle case romane, in cui era a cielo aperto, nel Pompejanum l’Atrium è stato sempre coperto da un tetto di vetro. Dodice colonne doriche sostengono il soffitto a cassettoni (il tetto di vetro copre infatti solo la parte centrale). Al centro dell’Atrium c’è l’Impluvium, che nelle case romane raccoglieva l’acqua piovana. Qui è decorato con la citata statua bronzea del fanciullo in corsa, opera di Wilhelm Hopfgarten. I pavimenti sono mosaicati, i muri presentano un registro inferiore marrone decorato a trompe l’oeil con erme, piante ed insetti, il registro superiore presenta colori tipicamente pompeiani, rosso e giallo, su cui spiccano raffigurazioni nel quarto stile pompeiano realizzate da Christoph Nilson (si tratta di originali prebellici): Cerere, Venere, una coppia di Vittorie, Diana, Bacco ed infine Fortuna. In epoca attuale sono stati aggiunti i busti degli Imperatori romani da Giulio Cesare a Tito (sotto il cui regno scomparve Pompei): si tratta di repliche da originali antichi.
Attorno all’Atrium si aprono alcune stanze, tutte ricostruite dopo la guerra e che ai giorni nostri hanno ovviamente cambiato funzione dopo che l’edificio da residenza privata è divenuto un museo. In senso antiorario e facendo riferimento al Vestibulum abbiamo una stanza degli ospiti ove ancora sopravvivono alcuni affreschi (Fedra, Aurora, Narciso e tre figure sospese). Qui sono esposti alcuni frammenti di mosaici ed affreschi pompeiani originali oltre ad un bassorilievo del II secolo d.C., sicuramente frammento di un sepolcro romano che mostra una nave carica di anfore. Seguono due stanze da letto per gli ospiti che oggi contengono reperti archeologici romani del I-II secolo d.C. In ambedue queste stanze non si è volutamente proceduto al restauro delle pitture parietali per mostrare i danni provocati dalla guerra. Accanto vi era il Sacrarium, contenente la riproduzione di un altare domestico e di oggetti sacri adoperati dal Pater Familias nella celebrazione dei riti, ma questi arredi sono andati interamente distrutti nei bombardamenti e oggi la stanza ospita alcuni reperti archeologici. In questo ambiente sono stati però restaurati gli affreschi, che mostrano uccelli ed architetture in trompe l’oeil. Anche il mosaico pavimentale si è in gran parte salvato.
Sul lato opposto dell’Atrium si trova l’Ala, un disimpegno tra due camere da letto. Questa zona dell’edificio ha subito una totale distruzione, ed è frutto di ricostruzione. L’Ala è decorata con le pitture murali di Saturno e di Igea, e di due baccanti con un pavone, ed architetture in trompe l’oeil. Oggi vi si espone la statua del satiro danzante, copia di età imperiale di un originale greco.
A destra dell’Ala c’è una camera da letto padronale, che in mancanza di documentazione è stata ricostruita del tutto di fantasia. Vi si espone una statua di Bacco del I secolo d.C. e pure al I secolo d.C. risale la statua della Fortuna nella sala a sinistra dell’Ala, le cui pitture parietali sono state interamente ricostruite.
Il triclinio, cioè la sala da pranzo invernale non è accessibile ma lo si può ammirare da una finestra sul peristilio. È stato ricostruito il mobilio di un triclinio romano; sugli affreschi di questa stanza, assai rovinati, sono stati sperimentate le tecniche di restauro in seguito applicate su tutto il Pompejanum. Per significare la differenza tra prima e dopo gli interventi di recupero, larghe zone degli affreschi sono state lasciate nelle pristine condizioni. Sono oggi visibili alcune nature morte e figure di donne e di amorini. Le composizioni maggiori sono Leda nel nido con Castore, Polluce ed Elena, Sileno che istruisce Bacco e la lotta di Eros e Pan.
Oltre l’Atrio si trova il Tablinum, una sala da ricevimento che in origine era schermata con tende su due lati, i cui affreschi, che riproducono fedelmente quelli del Tablinum della casa dei Dioscuri, avevano subito danni assai meno gravi di quelli dell’Atrium durante i bombardamenti. Si tratta di episodi dell’Iliade, raffigurati nel quarto stile pompeiano. I mosaici pavimentali di questa stanza sono opera di un artista non identificato che si firma Pampillonia e raffigurano una vestale con una statua di Minerva ed Apollo con la lira. Nelle case romane, il Tablinum era la stanza ove il Pater Familias riceveva i clientes per il saluto mattutino.
Oltre il Tablinum si trova il peristilio, un portico colonnato che circondava un giardino interno su tutti e quattro i lati, almeno nelle grandi ville. Tuttavia nella casa dei Dioscuri, una dimora urbana, per ragioni di spazio il peristilio correva su un solo lato del Viridarium, cioè del giardino interno, e tale soluzione è stata adottata anche nel Pompejanum. Qui il peristilio si presenta come un ambiente con soffitto a cassettoni, con una vasca di pietra al centro. Gli affreschi raffigurano Zeus in trono, assai rovinato, ed una figura femminile pure assisa in trono ed identificata con Cibele. Quattro colonne doriche separano il peristilio dal Viridario, chiuso però da una parete di vetro e non accessibile. Gli altri tre lati sono chiusi da pareti intervallate da semicolonne. Su quella di fondo vi è un grande trompe l’oeil in stile moderno (completamente distrutto durante la guerra e ricostruito sulla scorta di documenti fotografici) raffigurante appunto un giardino affacciato sul mare. Alle altre due pareti ci sono due busti di filosofi (Socrate e Platone) e due di poeti (Omero ed Euripide), riproduzioni di originali antichi. Il Viridarium è piantumato con essenze mediterranee.
A sinistra del peristilio vi sono alcuni corridoi che collegano la cucina, l’Aerarium o stanza del tesoro e conducono altresì all’ingresso secondario. Anche questi locali di disimpegno in origine erano decorati con mosaici ed affreschi, sebbene di tono più dimesso.
Il locale chiamato Aerarium, ritenuto la camera ove Ludovico I custodiva i preziosi, presenta affreschi con la pesca di Amore e Venere, Narciso e Ganimede. Nella stanza è anche conservata un’urna cineraria romana del I secolo d.C. ma l’iscrizione è posticcia e risale presumibilmente alla fine del XVIII secolo.
Di fronte all’Aerarium vi è un ambiente non accessibile al pubblico, decorato assai poveramente, con una scala che conduce a tre camere da letto al piano superiore. Verosimilmente si trattava di locali per la servitù.
La cucina non è la riproduzione fedele di un analogo ambiente romano, in quanto qui sono state fatte concessioni all’architettura domestica del XIX secolo. Il focolare è incassato nel muro come ai tempi dell’antica Roma, ma il camino praticatovi sopra era sconosciuto ai Romani e così pure la finestra che affaccia all’esterno è un anacronismo. Gli utensili di bronzo sono le copie commissionate da Ludovico I mentre le sei anfore vinearie ed olearie sono autentiche.
L’altra estremità del peristilio, che conduce sia alle scale sia alla sala da pranzo estiva, è affrescata in tinte chiare e vi si nota la replica di un affresco di Venere in compagnia di Mercurio proveniente dalla casa dei Dioscuri. Il tetto è dipinto con pesci ed un cervo, ma il pezzo più importante è la statua del satiro ubriaco, un marmo romano del II secolo a.C.
La sala da pranzo estiva è la stanza più sontuosa dell’intero edificio e non è accessibile, la si ammira dalla soglia. Qui le pareti non hanno affreschi ma sono decorate con un lavoro a scagliola che imita il marmo, opera dello stuccatore Viotti, simulante grandi lastre di marmo sanguigno. Sulla parete di fronte alla finestra è stato collocato un micromosaico, dono di papa Gregorio XVI a Ludovico I, che rappresenta una scena di sacrificio da parte di due antiche romane. L’opera è contenuta in una cornice realizzata con la medesima tecnica, che rappresenta tralci e foglie di vite.
Il soffitto è a cassettoni, ma il decoro di questi ultimi, andato perduto nei bombardamenti, era sconosciuto e così è stato ricostruito prendendo spunto dal soffitto della camera cosiddetta della padrona. Il pavimento è riccamente decorato a mosaico.
L’arredamento della sala è costituito da due grandi candelabri marmorei e da un catino pure di marmo, tutti e tre reperti archeologici originali. Entrambi i candelabri sono composti di tre pezzi: base, fusto e coronamento. Quello più grande è decorato con Cerbero, un’aquila ed un toro, con quattro scettri e teste d’ariete. Quello più piccolo presenta il fusto tortile ad imitazione d’un tronco coperto d’edera ed è decorato con oggetti rituali. Il catino è ricavato da un blocco massiccio, è sorretto agli orli da tre animali mitologici ed al centro da un tronco coperto d’edera; all’interno è decorato con un girasole.
Al di sotto del pianterreno esiste un vasto scantinato (non visitabile) le cui prese d’aria sono visibili in molte stanze, che era sconosciuto ai Romani ma irrinunciabile per i Tedeschi.
Di fronte alla sala da pranzo estiva corre una rampa di scale di ferro praticata nel 1988 (in origine l’accesso al piano superiore avveniva solo dalla scala esterna), la cui tromba è decorata con un trompe l’oeil di pilastri. Siamo adesso al piano superiore. La sala cui si accede presenta quattro ampie finestre (altro manifesto anacronismo, in quanto le case romane ricevevano luce solo dal cortile interno) affacciate su quello che nel 1848 era ancora un paesaggio agreste. Di fronte alle finestre sono dipinti quattro Geni alati. L’affresco di un concerto, replica di un originale da Ercolano, lascia presumere l’utilizzo di questa stanza come sala da musica. Ai giorni nostri è arredata con due vetrine colme di reperti archeologici, lucerne romane la prima e bassorilievi di terracotta la seconda.
Dalla sala da musica si va al pergolato, che è un corridoio con un lato aperto (ma munito di una vetrata) ed intervallato da quattro colonne ioniche, da cui lo sguardo va prima al Viridarium sottostante e poi alla campagna oltre il muro di cinta. Anche qui vi sono due vetrine, la prima con oggetti di uso quotidiano e la seconda con urne cinerarie. Sia il soffitto a cassettoni sia il pavimento sono stati ricostruiti come erano prima della guerra. Sul muro sono affrescate undici danzatrici e due Parche, tutte riprodotte da pitture ritrovate nelle case di Pompei.
Lungo il corridoio si aprono tre stanze: la camera del bambino, la camera da letto del bambino e la camera da letto dei genitori, nessuna delle quali è però accessibile.
La prima è ritenuta la stanza di un bambino perchè in origine decorata con dieci scene (oggi scomparse) di fanciulli intenti al gioco, tutte riproduzioni di affreschi di Pompei ed Ercolano. L’arredamento è costituito da un candelabro, un braciere ed un tavolo di bronzo, copie di originali romani, oltre che da una vetrina con reperti archeologici.
La seconda stanza è affrescata con otto Geni alati entro ghirlande. Sia il soffitto a cassettoni sia il pavimento sono stati ricostruiti secondo gli originali. L’arredamento è costituito da una vetrina con strumenti medici romani e da tre grandi vasi moderni (XIX secolo) decorati a scagliola con motivi greci. La mancanza di finestre lascia intendere che si trattasse di una camera da letto.
Anche la terza stanza è priva di finestre ed affrescata con scene riprese da originali di Pompei concernenti l’amore carnale: la venditrice di Amorini, Diana ed Endimione (questa sola da Ercolano) il giudizio di Paride, Marte e Venere, Paride ed Elena, Odisseo e Penelope, Vulcano e Teti, Bacco ed Arianna, Giove e Giunone. Altresì tra architetture in trompe l’oeil si scorgono dodici figure femminili e due Eroti. In una vetrina si conservano oggetti romani per la toletta e la cura del corpo. È pure presente la replica moderna di bronzo (XIX secolo) di un candelabro romano.
È invece accessibile la camera della padrona, all’estremità del corridoio. Questa camera poteva vantare in origine affreschi nel quarto stile pompeiano tra i migliori dell’intero edificio, ma oggi sono parecchio rovinati e si è optato per un recupero solo parziale.
Il registro inferiore è decorato con nature morte; alle pareti spiccavano tre grandi composizioni di Christoph Nilson, tutte copie fedeli degli originali della casa dei Dioscuri: Apollo (ben conservato), Ercole (severamente danneggiato) e Bacco (del tutto scomparso). Sopravvivono altresì sette delle nove Muse (in origine era raffigurata anche Mnemosine, loro madre).
Sono invece creazioni originali del pittore Carl Richard alcune scene di caccia ancora visibili ma sono purtroppo scomparsi i ritratti, a figura intera e nelle vesti di antichi romani, dei creatori del Pompejanum: Christoph Nilson, Friedrich von Gärtner, Joseph Schwarzmann (pittore), Carl Ludwig Louis (capocantiere). Il soffitto a cassettoni dipinti è stato in parte recuperato. Il pavimento a mosaico, in cui campeggiano tre medaglioni raffiguranti Giove, Giunone ed una maschera teatrale è invece scampato alla guerra. I tre medaglioni sono opere originali di Anton Ganser.
Una scala esterna conduce alla loggia belvedere, non visitabile, che da sola costituisce il secondo piano ed era chiamata la camera del re. È forse il maggiore anacronismo in quanto le case romane non disponevano di belvedere, ed anche le sue grandi finestre panoramiche sono un’idea moderna.[2]
[1] È interessante notare come nel corso della storia quanti amano, o piuttosto dicono di amare, la patria l’abbiano alla fine ridotta in macerie.
[2] Helmberger et alii 2017; Sinkel 1984.
[1] Macher 1980, pp. 63-64, 89.
[2] Scheffler 1981, pp. 24-26, 101-102.
[3] Oltre al Pompejanum, Aschaffenburg vanta altri insigni monumenti, in primo luogo il castello di Johannisburg, un magnifico esempio di castello barocco eretto dal 1605 al 1618 sul sito di una preesistente fortezza medievale e ristrutturato fra il 1774 e il 1784 dall’architetto Emanuel Joseph von Herigoyen (1746-1817), distrutto quasi completamente durante la II Guerra Mondiale e ricostruito dopo il 1954.
Sempre opera di von Herigoyen è il piccolo castello di Schönbusch (1778-1782) circondato da un vasto parco nel quale sorgono alcuni padiglioni minori.
Nel centro di Aschaffenburg si ammira altresì il castello di Schönborn (1676-1781), anche questo in stile barocco ed anche questo severamente danneggiato dai bombardamenti ed in seguito restaurato. Ottersbach 2010, pp. 85-90.