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Il romanesco, lingua feroce e fulminante

Quando ci provi con una ragazza sul bus. Il romanesco, lingua feroce e fulminante

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“Come t’antitoli?”
Quando arrivai a Roma nel 1992 mi chiesero il mio nome di battesimo e mi sembrò subito d’essere caduto dentro un film di Carlo Verdone.
Diceva Oscar Luigi Scalfaro da Novara, eletto quell’anno Presidente della Repubblica, che i romani sono fatti così, hanno nel petto il Papato e l’Impero. E per tale motivo riescono a smontare -con il loro relativismo ironico- qualunque interlocutore.
I romani sono graffianti per natura, forse perché nipoti di Marziale e Giovenale, e figli di Gioacchino Belli e di Trilussa.
E così a Roma c’è un vocabolario autonomo: appare il bibbitaro e il fruttarolo, mentre un pregiudicato in galera è “ar gabbio”.
Quando l’hanno arrestato… “soo so’ bevuto”, direbbe un romano parlando dei carabinieri che lo hanno preso.

Se invece vuoi placare l’ansia di parlare di un tuo amico logorroico lo fulmini con un “certo che sei na pentola de facioli!”.

E la brava ragazza di cui si è innamorato tuo cugino “er burino”, se è donna tutta d’un pezzo, diventa nella sintesi romanesca “na caciottara”.

Sarà stato il 1993, ero sul 60 dell’Atac lungo la via Nomentana quando mi accadde di assistere a un tentativo di rimorchio da parte di un ragazzino ganzo, che lanciava sguardi languidi e molto espliciti a una giovane donna seduta sul sedile di fronte.

Lui ruppe gli indugi:
“Te risurto?”,
fece con piglio aggressivo.

Lei, laconica, gelida, e romana:
“M'arimbarzi”.


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