Cultura Ragusa

“Pausa Pranzo”, il nuovo libro fotografico di Giuseppe Leone. FOTO

Il pasto sotto gli alberi di pastori e contadini e le tavole dei nobili.



Ragusa - “Pausa Pranzo” è il titolo del nuovo libro fotografico di Giuseppe Leone. Volume pubblicato da “Plumelia Editore” (pagg. 185, euro 40). «Il protagonista del libro è il racconto, il cibo è un pretesto», si legge nel testo di accompagnamento di Concetto Prestifilippo.

Un magnifico racconto per immagini che il fotografo di Ragusa ha dedicato alla tradizione mediterranea delle apparecchiature, il diskos di uomini e donne raccolti in cerchio nell’atto del racconto. Un susseguirsi di tavole aristocratiche e umili focolari. Pause pranzo. In verità, pretesti per la più indispensabile delle cose inutili: narrare. A raccontarsi sono artisti, poeti, nobili, artigiani e operai.

Il cibo intesse pagine mirabili della letteratura siciliana. Tra le pagine del volume albergano i ritratti dei grandi interpreti della cultura del Novecento: Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Enzo ed Elvira Sellerio, Piero Guccione, Sonia Alvarez, Dacia Maraini. Tutti immortalati nell’atto del rito del pranzo.

In verità, tutti raffigurati nell’atto di raccontare. Bisbigliano al commensale al loro fianco, declinano testi agli astanti, ascoltano rapiti. “I siciliani per non lavorare scrivono”, sottolineava ironicamente l’editore Valentino Bompiani. Sfogliando le pagine di questo libro viene da aggiungere che, oltre che scrivere mirabilmente, lo fanno nel corso di interminabili pranzi.

Pubblichiamo uno stralcio del testo di Concetto Prestifilippo che accompagna gli scatti
La Sicilia di un vago Ottocento. Il salone di una dimora nobiliare di campagna: "La porta centrale si aprì e "Prann' pronn" declamò il maestro di casa; suoni misteriosi mediante i quali si annunziava che il pranzo era pronto". La scena è tratta da una delle pagine più trascurate del romanzo "Il Gattopardo". Un brano che smonta l'abusato assunto lampedusiano quello del "Cambiare tutto per non cambiare nulla". Il maggiordomo informa che il pranzo è servito. Ma l'annuncio è anche il preludio al cambiamento epocale che sta per andare in scena. A tavola il vecchio principe Salina scruta, smarrito, la selvaggia sensualità di Angelica, sembra mangiarsela con gli occhi. La trasformazione sociale che va in scena ha un suono basso e cavernoso, quello della risata grossière della figlia di don Calogero Sedara, ex soprastante. "Angelica, la bella Angelica, dimenticò i migliaccini toscani e parte delle proprie buone maniere e divorava con l'appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell'impugnatura le conferiva".

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Don Calogero Sedara è il personaggio più laido della letteratura del Novecento italiano, al pari dell'orrendo Nikolaj Stavrogin di dostoevskijana memoria. Quel pranzo segna, dunque, un punto di svolta epocale. La Sicilia dell'aristocrazia placida e indolente, figlia di tutte le invasioni e amante di tutti gli invasori, si rassegnava a cedere il passo a borghesi spaventevoli, cinici, goffi, sguaiati, parvenu, villani e rifatti privi di stile. (....) Il banchetto del Gattopardo, i suoi protagonisti, mettono dunque in scena la storia recente della Sicilia. Calogero Sedara è l'antenato della nuova classe dominante. Nuova casta di privilegiati che hanno fatto della Sicilia del Novecento l'attuale Isola inospitale e disperante.
L'arguzia introspettiva di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è la stessa che alberga nelle immagini fotografiche di Giuseppe Leone. Il suo è uno scandaglio sociale frutto di mezzo secolo di bracconaggio fotografico. Il protagonista del libro di Leone è il racconto, il cibo è il pretesto. Scatti che scandiscono un affastellarsi di tavole imbandite, focolari, apparecchiature, akratismos, agapi, convivi, epule. È il dìskos della millenaria tradizione mediterranea. Immagini di uomini e donne raccolti in cerchio nell'atto del racconto. Ritratti fotografici di tavole aristocratiche e umili focolari di pastori e contadini. Pause pranzo. In verità, pretesti per la più indispensabile delle cose inutili: narrare. A raccontarsi sono artisti, poeti, nobili, artigiani e operai.
Il libro muove da un assunto sciasciano: per esporre efficacemente una storia, occorre restringere il campo della ricerca e focalizzare l'attenzione su un dettaglio apparentemente insignificante. Dall'archivio sterminato del fotografo ragusano, misteriosamente, trova forma compiuta questa storia della trasformazione epocale operata in Sicilia. Il casellario fotografico di Giuseppe Leone è un continuo stupore. Come entrare dentro una buia miniera, abbrancare, casualmente, un sasso e tornati in superficie, increduli, accorgersi di brandire una pietra preziosa. Migliaia di diapositive, negativi, stampe, provini di scatti che non finiscono mai di stupire. Immagini che possiedono l'eleganza della buona composizione pittorica.

Un repertorio fotografico che presenta un carattere di dualità. Da una parte, come in una sorta di tentativo estremo, le testimonianze del naufragio della cultura contadina. Dall'altra il disperato tentativo di fissare il paesaggio isolano, prima che uno dei due sparisca. La molla del suo agire fotografico non è mera nostalgia del passato, piuttosto una speranza di consegna di memoria. Un tentativo di consapevolezza condotto con strenua fermezza.

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Da sempre avviluppandosi, torcendosi, il cibo e il racconto, intessono pagine mirabili scritte dai protagonisti della letteratura siciliana. Non ultimo anche questo racconto per immagini. Tra le pagine di questo libro albergano i ritratti dei grandi interpreti della cultura del Novecento: Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Enzo Sellerio, Piero Guccione, Sonia Alvarez. Tutti immortalati nell'atto formale del rito del pranzo. In verità, tutti raffigurati nell'atto di raccontare. Bisbigliano al commensale al loro fianco, declinano testi agli astanti, ascoltano rapiti. "I siciliani per non lavorare, scrivono", sottolineava ironicamente l'editore Valentino Bompiani. Sfogliando le pagine di questo libro viene da aggiungere che, oltre che scrivere mirabilmente, lo fanno nel corso di interminabili pranzi.
Migliaia le pagine della letteratura siciliana dedicate al rito del pranzo. Da una parte le narrazioni che testimoniano l'epopea dell'aristocrazia isolana, le pagine di Tomasi di Lampedusa, Federico De Roberto, Dacia Maraini, Simonetta Agnello Hornby; dall'altra, l'epica della cultura contadina, quella raccontata da Giovanni Verga, Mario Rapisarda, Leonardo Sciascia.
Ma lo scrittore che più di tutti sembra ispirare questo racconto fotografico di Giuseppe Leone è Elio Vittorini, l'autore di "Conversazione in Sicilia". Il protagonista del romanzo è Silvestro Ferrauto, intellettuale e tipografo siciliano emigrato a Milano. In un viaggio di ritorno "in preda ad astratti furori", incrocia sul traghetto un contadino siciliano, piccolo di statura, senza cappotto, affamato e soave nell'aver freddo, le mani nelle tasche dei pantaloni, il bavero della giacca rialzato. Sul ponte della nave il protagonista mangia pane, aria cruda e formaggio. Cibo che gli riporta alla mente antichi sapori, financo gli odori delle mandrie di capre. "Non c'è formaggio come il nostro", scandisce Silvestro rivolto ai piccoli siciliani curvi e alle donne sedute sui sacchi. All'invito rispose solo il più piccolo di statura, il più scuro in volto, il più bruciato dal vento. Silvestro e il contadino danno vita a un surreale confronto sul cibo. L'oggetto della conversazione è l'arancia, il frutto che incarna la stessa sicilianità. Il contadino si inginocchia, fruga dentro un paniere ai suoi piedi, tira fuori un'arancia. Offre il frutto dorato alla moglie-bambina, lei aggrottata nel suo scialle scuote la testa rifiutando. Il piccolo contadino con il vento che oltraggiava la visiera del cappello, sbuccia l'arancia, ingoiandola come ingoiasse maledizioni. (...)


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