Economia Guerra energetica

Isab-Lukoil, salvare Siracusa: 6 mesi di tempo per il Piano B

Governo al bivio per scongiurare la crisi: risolvere le difficoltà di credito bancario o nazionalizzare la raffineria

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 Priolo Gargallo, Sr – C’è chi parla addirittura di 10mila lavoratori a rischio e di un punto percentuale in meno di Pil regionale: per i sindacati la raffineria Isab vale da sola metà dell'economia siracusana, un miliardo di euro tondo tondo. Certo ripercussioni occupazionali dalla sua eventuale chiusura si avranno in tutta la Sicilia, a partire dalle limitrofe province di Ragusa e Catania, per la movimentazione di merci e derivati dal petrolio messi in moto dal sistema. La Isab - azienda italiana il cui socio unico è la Litasco SA, società svizzera parte del colosso Lukoil - sta facendo affari d’oro adesso: compra il petrolio scontato del 30% rispetto ai prezzi di altri esportatori e rivende a terzi i prodotti finiti al costo attuale di mercato, in volo oltre i 130 dollari al barile.

Ma se non si trovano subito idrocarburi non russi da infornare - per continuare a produrre e a riesportare qualcosa oltre che a comprare - entro fine anno l’impianto sarà costretto a chiudere i battenti e sicuramente saranno migliaia i disoccupati siciliani; e molte di più le famiglie che in tutta Italia dovranno fare i conti con rincari di ogni genere di bene, che seguiranno a pioggia quelli energetici. La batosta, non occupazionale ma sociale, si avvertirà in tutto lo Stivale. I vari accordi stretti da Eni e governo con paesi arabi e africani, a quanto pare, sono ancora lungi dal sortire qualche effetto sulla nostra bilancia energetica: canali di approvvigionamento esteri che spostano semplicemente la dipendenza dell’Italia dalla Russia ad altri stati che, comunque, tutto sono tranne che campioni di democrazia e diritti umani.

Gli investimenti nostrani in parchi fotovoltaici, eolici e marini hanno bisogno di tempo perché entrino a regime e da soli non bastano: per costruirli, inoltre, occorre ancora la vecchia energia fossile, tutt’altro che destinata - in questo scenario - ad essere superata come pretenderebbero gli stringenti accordi internazionali sul clima. La mossa europea di bloccare il greggio di Putin, almeno dal mare, come ulteriore patetico tentativo di fiaccarne l'avanzata in Ucraina, era ampiamente prevedibile eppure solo ieri - a embargo varato - il dossier siciliano è entrato nelle agende ministeriali solo ieri. In tutta fretta è stato convocato un tavolo di crisi sul distretto industriale aretuseo con Regione, prefettura, parti sociali, Unione petrolifera e - oltre al capoluogo - i comuni della zona Augusta e Melilli. La richiesta a Roma è di intercedere con le banche per rimuovere il blocco bancario e riaprire le linee di credito per la Lukoil, così che possa acquistare greggio dal mercato internazionale e non soltanto dalla Russia.

Va bene le sanzioni, ma a tutto c'è un limite: non ci si può affamare per salvare una battaglia, data già persa da parecchi osservatori. La decisione, però, non è assumibili indipendentemente da Ue, Usa e dalla volontà degli stessi istituti di credito occidentali. Anzi, alcuni si sono già messi di traverso: perché foraggiare una società che rischia di trovarsi fuori dal giro per motivi geopolitici, e che – suo malgrado – rimpingua le casse del Cremlino e dunque del proseguimento delle ostilità? Secondo il Financial Times solo a maggio sono arrivati via Mediterraneo 450mila barili di greggio, quattro volte il carico di febbraio. Ne serviranno molte altre di riunioni, soprattutto a Bruxelles, per uscire dall'impasse. Il Mise, d’altronde, non può ancora intervenire: il petrolchimico priolese non è un’area di crisi, di fatto al momento funziona.

Ma se il conflitto, come sembra, andrà avanti ancora a lungo è necessario pensare oggi a una soluzione. Il governatore Musumeci vorrebbe riconosciuta la dicitura di “area industriale di crisi complessa” per accedere ai fondi europei e nazionali, cui legare quelli per la transizione energetica agganciati al Pnrr, il fondo Ue del Recovery: un lungo convoglio di finanziamenti “trainati”, sul tavolo del ministro Giorgetti. Siamo arrivati al redde rationem: senza un intervento di copertura pubblico - con l’ipotesi di nazionalizzazione, tramite un intervento di Invitalia al 49% - la carenza di materie lavorate come il gasolio peserà su un mercato corto, con pochi possibili fornitori in sostituzione di una filiera che in Sicilia è penalizzata anche dalle difficoltà logistiche negli approvvigionamenti, tipici di un’isola. Coprendo il 20% della domanda siciliana di elettricità, rincarerebbero pure i raffinati come benzina e diesel, inasprendo il carovita a mo’ di domino: dalle bollette agli alimenti, ai trasporti.


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