Cultura Scicli

Il Cristo di Burgos, un'icona singolare di cui Scicli è custode

Le vicende della tela ricostruite dallo storico dell'arte Paolo Nifosì

https://www.ragusanews.com/resizer_NEW/resize.php?url=https://www.ragusanews.com/immagini_articoli/19-04-2012/1396122176-il-cristo-di-burgos-un-icona-singolare-di-cui-scicli-e-custode.jpg&size=534x500c0 Cristo di Burgos a San Giovanni


Scicli - La tela del Crocifisso di Burgos si trova nella sagrestia della chiesa di S. Giovan­ni Evangelista a Scicli, un tempo annes­sa al monastero delle Benedettine, de­molito alla fine dell'Ottocento per far posto al Municipio. L'opera non era sta­ta mai citata né dalla storiografia spe­cialistica né dalla storiografia locale. È stata pubblicata per la prima volta dal sottoscritto nel 19881.

La tela rappresenta il Cristo Crocifisso su un fondo totalmente scuro. La sua peculiarità è costituita dalla sua icono­grafia: il corpo del Cristo, nudo fino al bacino, è coperto dai fianchi fino alle caviglie da una veste bianca chiaroscu­rata, con variazioni di grigio, a larghe pieghe verticali, orlata da una larga fa­scia a merletto, minuziosamente resa in modo calligrafico, lavorata a rosette cir­colari su una base di colore marrone bruciato. Il Crocifisso è reso con la bar­ba e i capelli lunghi, con il capo recli­nato a sinistra, coronato di spine; ha gli occhi socchiusi sul modello del Cristo "patiens".

Il corpo è martoriato: sono circa quindici le ferite lungo le braccia e sul torace, lacerato da una larga ferita sanguinante. I piedi sono fissati sulla croce da un chiodo sotto il quale si tro­vano due coppe argentate splendenti e un uovo di struzzo. La luce frontale de­finisce i contorni del corpo, mettendo in evidenza i muscoli delle braccia e del torace. La croce lignea è appena perce­pibile.

 

L'opera è di buona fattura accademica. Solo la fascia del merletto sui lati non fa corpo con la restante parte della stoffa, rimanendo scollata e a sé stante. L'im­paginazione complessiva, nella resa del corpo su un fondo scuro, rientra dentro una tendenza che trae origine dal pri­mo Seicento italiano. L'iconografia, a quanto mi risulta, non ha riscontri in Italia, mentre ha riscon­tri in diverse tele con analogo soggetto che si trovano in varie città della Spa­gna. Si tratta di una iconografia secen­tesca che fa riferimento ad una scultura lignea del secolo XIV, venerata nella chiesa madre di S. Maria di Burgos. Proprio in rapporto con la venerazione del Cristo di Burgos verranno ad essere realizzati diversi dipinti. Il corpo del Cristo ligneo di Burgos è rivestito di pelle umana e indossa dai fianchi in giù una veste sacerdotale ric­camente lavorata. I piedi, saldati alla croce con due chiodi, uno per ogni pie­de, sono contornati da una corona; nel­la parte terminale della croce in basso si ttovano tre uova di struzzo.

https://www.ragusanews.com/immagini_banner/1733235333-3-bruno.png

Lo Charbonneau Lassay nota come nella cultu­ra cristiana medievale le uova di struzzo sono emblema del corpo di Cristo, del­la sua morte e della sua resurrezione. L'uovo di struzzo si considerava il più bello tra le uova sia per le sue dimen­sioni che per la perfetta curvatuta. Una leggenda, altresì, legava il Cristo allo struzzo che "tornava alle sue uova poco prima della schiusa, provocando la rottura dei gusci, spargendovi sopra il suo sangue e liberando i suoi piccoli, così come il Salvatore col suo sangue ha liberato il genere umano". Resta non chiarita iconologicamente la presenza delle due coppe poste sopra l'uovo. L'iconografia del Cristo di Burgos si differenzia dalle altre iconografie del Crocifisso che prevalentemente rientrano in due tipologie: l'iconografia del Crocifisso nudo col perizoma, la più diffusa; l'iconografia del Crocifisso con il colobium. Una terza iconografia, al­quanto rara, vede il Crocifisso con una veste sacerdotale che copre sia le gambe che il torace e le braccia: rientra in que­sta terza tipologia il Volto Santo di Luc­ca.

L'opera di Scicli reca in basso, al centro, sotto l'uovo, la data 1696 ed una possi­bile firma dell'autore, in una scrittura calligraficamente elaborata che potreb­be leggersi come segue: Don ]uan de Parlazin (o Parlazerin) fecìt anno 1696. E' chiaramente leggibile la data. Indi­pendentemente dalla firma presente nella tela, questa va riferita ad un artista spagnolo che l'ha eseguita in Spagna pet committenti che l'hanno trasferita poi in Sicilia.

https://www.ragusanews.com/immagini_banner/1732705621-3-ag-distribuzione.gif

Come si giustifica la presenza di questo dipinto nella chiesa di S. Giovanni Bat­tista di Scicli? L'ipotesi più plausibile è quella che l'opera sia stata donata al monastero da una famiglia che aveva le­gami con la Spagna. Fondatrice del mo­nastero di S. Giovanni Evangelista era stata Donna Giovanna Di Stefano che aveva destinato nel 1650 duecento onze di tendita annue per la fondazione e la costruzione del monastero. Questa, vedova di Bartolomeo Ronde, castellano di Lentini, si era unita in seconde noz­ze con Don Girolamo Ribera, barone di Santa Matia La Cava e di Montagna Rossa, giudice della Gran Corte di Mo­dica, figlio di Don Mattia Ribera, origi­nario di Toledo7. Tra l'intenzione di fondare il monastero e l'effettiva istitu­zione dello stesso passeranno trentasette anni. La presenza di dodici suore nel monastero si avrà a partire dal 1687 a sei anni di distanza dal terremoto del 1693 e a nove anni dall'esecuzione del­l'opera in esame. Sicuramente Donna Giovanna Di Stefano era di già morta nel 1696, per cui l'opera è da collegare con i suoi eredi che dovevano intratte­nere rapporti con la Spagna. Conte­stualmente all'atto di fondazione del 26 gennaio del 1651 presso il notaio Giu­seppe Ugo di Scicli, Donna Giovanna Di Stefano nominava eredi universali i suoi fratelli Don Francesco di Paola e Don Guglielmo9. Quest'ultimo trasfe­riva i suoi beni in proprietà del mona­stero con atto dell'8 ottobre 169910. I rapporti tra la famiglia Di Stefano e il monastero continuano anche nel primo Settecento: nel 1726 una Donna Eleo­nora Di Stefano viene sepolta proprio davanti all'altare centrale della chiesa. Se questa è l'ipotesi più plausibile, sono da tenere in conto altre ipotesi: è possi­bile che l'opera sia pervenuta al mona­stero come dote di monacazione di qualche aristocratica, o come donazione sempre di qualche famiglia aristocratica durante il Settecento. Resta comunque un'opera di particola­re rilevanza più che per gli aspetti for­mali, per gli aspetti iconografici, icono­logici e devozionali.


 

 

1 P. Nifosì, Scicli, una via tardobarocca, Scicli
1988, p. 20.

2 L. Charbonneau Lassay, // bestiario di Cristo,
ed. it., Roma, 1994, p. 279.

3 L. Charbonneau Lassay, cit., p. 279.

4 Ibidem, p.278.

5 Ibidem, p.281.

6 Memorie Istoriche Civili ed Ecclesistiche della
città di Scicli, raccolte e compilate dal canonico
Giovanni Pacetto, ms. tra il 1855 e il 1870.

7 G. Barone, L'oro di Busacca. Potere ricchezza e
povertà a Scicli (secoliXVI-XX), Palermo, 1998,
p. 118.

 

A. Carioti, Notizie storiche della città di Scicli, ed. a cura di M. Cataudella, Scicli, 1994, voi. 2, p. 460.

 

9 G. Pacetto, ms. cit., p. 558. S. Santiapichi, ms., foglio sparso


© Riproduzione riservata