Cultura Intervista

Un’imboscata a casa di Franco Battiato

Una lezione di estetica di Franco Battiato, durante un pomeriggio di agosto, con Peppe Savà ed Eugenio La Terra. A Villa Grazia, a Milo. 22 agosto 1997.



Il 23 marzo del 1945 la signora Grazia Patti diede alla luce il secondogenito a Salvatore Battiato: Francesco.
Franco Battiato compie oggi 76 anni. Ragusanews pubblica una intervista per la carta stampata di Giuseppe Savà, del 22 agosto 1997, inedita sul web, e realizzata a Villa Grazia, la casa di Franco, a Milo.
Le foto originali dell’articolo sono di Stefano Senardi, produttore discografico che ha lavorato, fra gli altri, con Frank Sinatra e Veronica Ciccone, in arte Madonna.

***
L’invito ad andare a Milo a casa di Franco Battiato è arrivato mercoledì 20 agosto 1997 alle sette di sera.
L’appuntamento per venerdì 22 agosto dalle 17 in poi. I patti per telefono erano stati chiari: una visita privata, niente telecamere e microfoni.
Ma la carne, si sa, è debole e io non ho saputo resistere alla tentazione: ho portato con me macchina fotografica e registratore portatile.
Appunto, niente telecamere o microfoni, che però non sono gli unici ferri del mestiere.
Ed è così che io ed Eugenio abbiamo teso un’Imboscata a Franco Battiato.

Per molti anni hai vissuto lontano dalla Sicilia. Sei tornato ai tuoi luoghi d’origine quando eri ormai un autore affermato a livello internazionale.
In questi anni sei stato descritto come un cantautore apolitico e solitario, un individualista, forse per via del carattere assolutamente originale del tuo modo di vivere l’esperienza artistica, fuori dagli schemi e dalle convenzioni.
Eppure sei riuscito a sorprendere tutti con i tuoi slanci inusitati proprio nell’impegno politico, nell’accezione più ampia del termine, assumendo per tre anni consecutivi la direzione artistica dell’estate catanese. Gratuitamente.
Più in generale hai sempre partecipato a tutte le iniziative culturali che trascendessero dai colori politici e che rappresentassero qualcosa di alto e di elevato.
Chi negli anni 80 ascoltava Battiato cantare “i direttori artistici”…

…“mandiamoli in pensione”…
oggi si meraviglierebbe nell’apprendere che tu sei diventato un direttore artistico. La paradossalità ti insegue?
Sì e no. Vedi, il paradosso è un po’ un mio stile di vita, credo in una sana contraddizione e difendo un diritto: quello di cambiare idea e di dire che ho cambiato idea.
Tuttavia, continuo a pensare che si debbano mandare in pensione “certi” direttori artistici per sostituirli con altri.
La critica che facevo in quella canzone era a un certo modo di fare produzione culturale che in quel tempo era imperante.
È comunque un’esperienza abbastanza frequente assistere ancora oggi alle esibizioni di direttori artistici che hanno un interesse “particolare” o che sono semplicemente mossi da un grande senso di frustrazione.
Da questo punto di vista fare i direttori artistici e gli uomini politici è un po’ la stessa cosa.
Chi fa politica muove da una tensione etica: quella di cambiare in meglio il posto in cui vive.
Purtroppo la tensione è spesso quella sbagliata e oggi fa politica chi ha interessi particolari da rappresentare o chi è frustrato. Difficilmente chi ha competenza nell’arte nobile del perseguimento del bene comune. Lo stesso discorso vale per i direttori artistici.

Che giudizio dai della tua esperienza di direttore artistico dell’estate catanese?
L’esperienza di direttore artistico mi ha fatto capire cosa significa venire in contatto con la feccia politica.
In passato avevo avuto qualche dubbio al riguardo, facevo l’artista e basta, mi ero tenuto lontano da questo circuito, non ero venuto in contatto neppure con la periferia del pensiero politico.
Quando fai il direttore artistico di una manifestazione, fuori da qualunque appartenenza politica, per conto di un Comune il cui sindaco ha, per ragioni evidenti, un colore politico, può accadere che l’opposizione in consiglio comunale attacchi te per attaccare indirettamente il sindaco. Bene, allora hai la misura esatta di cosa sia la feccia della politica.
E’ un classico forse primordiale, non posso affermare che è un segno dei nostri tempi perché è sempre stato così, basta andare a rileggere l’Apologia di Socrate di Platone per accorgersene.

Sembri molto infastidito, o comunque disilluso dopo questa esperienza.
Disilluso no. E’ chiaro che quando vivi in presa diretta questo tipo di esperienza conosci delle meschinità che non saresti riuscito mai ad immaginare.
Anche se poi ritorni con i piedi per terra e ti rendi conto che queste cose fanno parte del gioco.
Mi intristisce la scorrettezza. E’ come se tu fossi il padre di un ragazzo che corre i 100 metri insieme ad altri più veloci e tu spezzassi loro le gambe per far vincere tuo figlio.
L’opposizione al consiglio comunale di Catania fa questo nei miei confronti, o almeno, tenta di fare questo. Se devo essere sincero a me questi signori fanno un baffo.
Ho accettato di organizzare l’estate catanese e per scelta ideologica ho accettato di farlo a una condizione: che l’incarico fosse a titolo gratuito. Se la controparte politica del sindaco lo mette in dubbio, che lo vada a verificare: ci sono i contratti, le delibere, da qualche anno esiste la legge, aiutami…
sulla trasparenza…
esatto! certi consiglieri comunali sanno che in verità io non ho preso una lira e però continuano a insinuare dubbi.

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Parliamo un po’ di arte, argomento forse più gratificante di questi tempi. Hai detto che ti contraddistingue una “sana contraddizione”. E’ forse una definizione del tuo cursus poetico, visto che sei passato dal pop all’opera lirica per andare al rock?
Se mi permetti vorrei citare quel postdadaista che durante una conferenza disse: “detesto tutti quei coglioni che portano le scarpe da tennis”, e lui portava le scarpe da tennis. Ecco, io mi ispiro a questa sorta di contraddizione autoironica esemplificata dal postdadaista.

Postdadaismo a parte, sei passato da un’opera lirica come “Il cavaliere dell’intelletto” a “L’Imboscata”, un album rock, dimostrando grande dimestichezza con generi ed esperienze musicali lontane sideralmente l’una dall’altra. Ami molto cambiare percorso.
Assolutamente sì. Provo una sorta di ebbrezza quando riesco ad andare fuori dai miei stilemi. E la cosa non è molto facile… Non so, pensa a quanto sarebbe bello se Antonello Venditti scoprisse l’eccitazione di non sentire più se’ stesso, ma un altro… E’ inevitabile che dopo venti o trenta anni gli stilemi di un cantautore vadano alla saturazione per questioni timbriche, melodiche; del resto non puoi trasformare completamente la voce. Puoi andare oltre te stesso al di là dei cliché; se ci riesci hai raggiunto un grosso traguardo.

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Il pubblico e la critica…
Il pubblico e la critica generalmente se ne fottono di queste considerazioni.
Volevo dire che il pubblico e la critica ti hanno seguito lungo questo percorso così contraddittorio.
Ah, in questo senso sì, credevo volessi dire un’altra cosa… Sì, mi ascrivono quantomeno la capacità di tentare esperienze diverse, di attraversare modi e percorsi sempre nuovi.

Ti senti vicino a un autore italiano o avverti come un senso di solitudine nella tua esperienza artistica?
La solitudine fa parte di questa vita ed è, grazie a Dio, un dono dell’esistenza. Che poi ognuno di noi cerchi di non cavalcarla e di non viverla, è un altro paio di maniche.

Nell’ultimo album parli della fine di una relazione dicendo “amata solitudine/ isola benedetta” e descrivi l’unione tra due persone dicendo “ero in te come un argomento/ del tuo amore sillogistico/ conclusione di un ragionamento”.
La ricerca della solitudine, secondo te, appartiene a un momento istintuale, il desiderio di compagnia e di affetto nasce invece da una scelta razionale consapevole.

Credo però che tu volessi sapere della mia solitudine di artista e non della mia solitudine esistenziale. Devo dire che qualcosina mi distingue dalla figura classica del cantautore, forse perché io non ho mai avuto miti. Sono cresciuto con l’ossessione della musica, non riesco a liberarmi dal desiderio di ascoltarne, di tutti i generi, da quella popolare a quella colta, ma senza assumere per questo dei modelli di riferimento. E’ forse per tale ragione che non si sentono influenze pacchiane nella mia produzione musicale. In genere il cantautore italiano classico si è spirato o a Jacques Brel o a Bob Dylan o a George Brassens. Confinandosi perciò nel ruolo di sottoprodotto. Inevitabilmente.

In che misura l’originalità del tuo percorso artistico è figlia del contatto col mondo arabo, col mondo islamico?
Il mio incontro con l’Oriente rappresenta comunque un’influenza esterna. Un detto mistico recita: “E’ impossibile che un contenitore piccolo ne contenga uno più grande”. Se tu hai un’essenza di musicista le appropriazioni formali e stilistiche che hai rispetto ad altre culture diventano come delle guarnizioni, delle decorazioni esterne. Il mio contenitore grande è l’essere un musicista, e non l’essere ad esempio un sufi o un buddista. Il mio accostarmi alla speculazione filosofica orientale è un contenitore piccolo che non può contenere quello più grande, la mia essenza di compositore di musica.
Se una comitiva di tedeschi in Cappadocia incontra un indigeno che parla il tedesco, e iniziano a parlare in tedesco, l’indigeno non gioca a fare il tedesco, si serve di un mezzo per comunicare ansie, bisogni, necessità.
Se l’indigeno dice agli altri “pane”, “Brot”, si serve del tedesco per comunicare, non diventa un tedesco.
Fuor di metafora, se la mia essenza musicale è un’identità ben precisa, l’appropriazione che di volta in volta faccio di forme esterne, come il rock, il pop, il jazz, il blues, resta a una sfera superficiale, non attiene al momento ontologico della mia poetica. Al contrario, quando ti appropri di una sostanza e non di una forma, diventi inevitabilmente un dipendente da altri generi, con rischio di fare la fine del sottoprodotto.

Stai lavorando al prossimo album?
Sì, e con grande anticipo.
Perché dici “con anticipo”?
Perché pur avendo tanto mestiere, e credo di averne tanto se non altro per motivi di età, ho bisogno di non farmi adulare dall’inganno feroce che attua ancora oggi il sistema musicale, un inganno che non finisce di stupirmi. Ti spiego: a volte capita che lavori a un pezzo e lì per lì dici “oh che bello, lo incidiamo subito” e dopo due mesi dall’uscita dell’album ti accorgi…

Che il pezzo è superato…
No. Ti accorgi che è proprio brutto.
Vedi, io non ho in mente un ideale di perfezione quando scrivo un pezzo, ma ho un’idea di circolarità, una circolarità che deve chiudersi in 3, 4 minuti, in un distillato che somiglia per certi aspetti a un piccolo miracolo. Penso a una canzone eterna che non sia oggetto di fenomeni di saturazione.
Il prossimo album sarà più simile…
All’Imboscata?

O a “L’ ombrello e la macchina da cucire”, se mi permetti di estremizzare assumendo il primo come modello di un album rock, il secondo come esempio di un’opera più difficile da interpretare.
Sai, il penultimo album, “L’ ombrello e la macchina da cucire”, aveva due problemi: è il disco che ho venduto meno in tutta la mia carriera…

Credo che la cosa non ti turbi…
Affatto, dico solo che è un dato che denuncia una carenza comunicativa da parte mia. E qui veniamo al secondo problema. Tuttavia, la mia esperienza teorica e letteraria mi porta a dire che a volte alcuni prodotti, alcune opere sono destinate…

Ad essere apprezzate nel tempo.
Diciamo che la domanda e l’offerta possono non coincidere.
Nella mia carriera è successo tante volte che un brano che all’inizio è stato apprezzato da un pubblico ristretto di fedelissimi, come ad esempio “Prospettiva Nevsky”, nel tempo ha riscosso un successo sempre crescente sino a diventare un classico che oggi tutti vogliono ascoltare nei miei concerti.

Questo significa forse che tu anticipi i gusti del tuo pubblico?
No, non penso sia un problema di anticipare tendenze.
E' allora un problema di cicli diversi: il tuo sentire e il sentire del pubblico possono incontrarsi subito o dopo anni.
A volte capita che un lavoro non cada nel momento giusto; il boom scoppia quando ciò che tu proponi va a inserirsi nel gusto e nelle aspettative collettive.

“La Cura” è una canzone che ha subito creato questo feeling tra te e il pubblico forse perché in questo momento l’orizzonte delle attese era per una canzone che trasmettesse un senso di protezione, offerto e ricevuto, in un rapporto che potrebbe essere quello genitore/figlio, o uomo/donna.
A proposito che ne dici de “L’Imboscata”?

L’album parte da un celebre racconto Sufi. Un giovane viene a sapere che un Maestro vive in un posto desolato e irraggiungibile.
Dopo giorni di strada e di ricerca riesce a trovarlo. Entra nella sua dimora completamente spoglia di ogni arredo e gli chiede: “Ma vivi qui, senza mobili, senza nulla?” E il maestro: “tu di mobili ne hai con te?” Il giovane: “No, ma io sono di passaggio”. E il maestro: “Anch’io sono di passaggio”.
L’Imboscata è al terzo posto tra gli album più venduti della mia carriera.

Mi pare stia andando bene.
Potrebbe vendere ancora di più nel tempo. Anche se qui secondo me dobbiamo ricordare una cosa: il secondo album più venduto della mia carriera, L’Arca di Noè, è stato un fiasco pazzesco, per quanto abbia venduto 600.000 copie.
Quelle copie non sono vere, 370.000 le abbiamo vendute in una settimana, perché quel disco sfruttava l’onda de “La voce del padrone”, un album che ha lasciato il segno. Quando la gente mi incontrava per strada dopo aver comprato quell’album mi fermava e mi diceva: “Non mi piaaace l’ultimo disco”. Avevano ragione.

Hai cantato in arabo, persiano, tedesco, francese, spagnolo, inglese, italiano e… in siciliano.
Sei cresciuto in una provincia remota dell’impero e tuttavia sei diventato il meno provinciale degli autori italiani. Senza rinunciare alle origini sicule.
“E’ inutili ca ntrizzi e ffai cannola, u santu è di marmuru e nun sura”.

Ah, questa è una frase bellissima, tipica delle nostre zone, la sentivo ripetere sempre da mia madre.
E’ l’invito, ironico, non senza allusioni alla sfera sessuale, come è tipico in queste frasi, a non affannarsi a corteggiare una persona che non ti corrisponde, a non perdere tempo in un’opera di convinzione destinata a fallire. E’ nella canzone “Veni l’autunnu”.

Poco fa hai cantato “Che cosa resta del nostro amore”, una canzone francese tradotta in italiano da un giovane Gesualdo Bufalino qualche lustro fa. Hai dedicato a lui l’ultimo album.
Ci eravamo sentiti al telefono due giorni prima di quell’incidente stradale, stava bene. E’ paradossale, e pirandelliano il modo in cui la sua morte è annunciata nell’ultimo libro. Ero a Parigi quando è scomparso, l’ho appreso dal giornale. In un primo momento, vedendo la sua foto in prima pagina, pensavo a un’intervista, poi… un vero colpo al cuore.
Ricordo che quando ci siamo visti l’ultima volta a Comiso mi disse: “Salutami Sgalambro, digli che lo penso sempre e che leggo i suoi libri. Una pagina alla volta però… Perché dopo la prima pagina…”
Dicevi prima che la tua essenza principale è quella di un compositore di musica. Perché a un certo punto hai deciso di dipingere?
Sono un cane che dipinge, un pittore cane che dipinge.

In un’intervista che rilasciasti a me e a Giuseppe Pitrolo un anno e mezzo fa dicesti che eri come i punk degli anni 80 che usavano la musica per vomitare.
Vedi, la mia pittura, se mi concedi di definirla così, potrebbe servire a dimostrare che si può anche trascendere la tecnica per comunicare.
Alcuni collezionisti abbastanza importanti sostengono che non c’è differenza tra quel mio quadro che vedi appeso lì e un mio disco.
Il che significa che io comunico un mondo con un mezzo che non è il mio e che io coercizzo, fregandomene delle prospettive, delle forme, dei chiaroscuri e della scioltezza del gesto.

Insomma, se dovessi dare un clima e una temperatura al quadro con i Dervisci che danzano ti direi che sento gli stessi odori, le stesse atmosfere, la stessa brezza che sento nella canzone “Voglio vederti danzare”.
Mi hai tolto le parole di bocca. Ecco, io ho deciso di dipingere per motivi terapeutici, quando mi sono accorto che non riuscivo a disegnare niente.
Volevo misurarmi con questa esperienza. Ho raggiunto il mio scopo quando ho dipinto quel Sufi lì, in due secondi, con un gesto da pittore che sa di dover tracciare una gonna e la traccia in uno solo scatto del polso.

Perché hai esposto con Piero Guccione?
C’è stato proposto di esporre insieme. È stato un onore che Guccione ha voluto concedermi. Piero è una persona sensibilissima, è una farfalla: si posa ma non tocca.

Concludiamo con questa immagine bellissima.
No. Guarda fuori, è calata la nebbia. E’ il 22 agosto e la nebbia è calata su Milo. Sarebbe bello che concludessi la tua intervista con questa scena, Peppe.
Sarà fatto. Nella foga della discussione ho dimenticato di bere il caffè.
Lo facciamo rifare. Lo preferisci turco o italiano?


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