Cultura Scicli

Le Teste di turco di Scicli

Un dolce inventato e realizzato come espressione culinaria di una devozione alla “Madonna delle Milizie” patrona della città

https://www.ragusanews.com/immagini_articoli/29-05-2023/le-teste-di-turco-di-scicli-500.jpg Le Teste di turco di Scicli


 Scicli - Leggo, è l’ultima novità, in Internet “Teste di turco ragusane”.

Perché dare a un dolce che è il simbolo della città di Scicli una forzata paternità “ragusana”?

La testa di turco è sciclitana fino al midollo delle ossa. Nulla toglie alla provincia ragusana se per onestà intellettuale questo dolce è chiamato sciclitano com’è giusto che sia.

Più volte mi sono battuto per compilare uno scrupoloso disciplinare perché la “testa di turco” sciclitana sia tutelata da falsificazioni, alterazioni, “matrimoni” indecenti e scellerati.

La testa di turco di Scicli, a differenza di quella descritta da Serafino Amabile Guastella ne “L’antico Carnevale della Contea di Modica” (pag. 26/27, nota 3), è un grosso bignè cotto in forno e non fritto. È un dolce inventato e realizzato come espressione culinaria di una devozione alla “Madonna delle Milizie” patrona della città. Un culto mariano antico, quest’ultimo, molto radicato non solo tra la gente di Scicli ma in tutta la Contea di Modica e a Caltagirone, città da cui proveniva il grosso dei venditori di stoviglie e ceramiche presente in paese durante la famosissima fiera che faceva da cornice alla festa.

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Un dolce aereo vagamente somigliante a un turbante, la testa di turco di Scicli, rigorosamente farcito con ricotta setacciata addolcita, profumata alla cannella, spolverizzato con zucchero a velo. Solo in epoca più tarda alla ricotta fu sostituita a richiesta la crema pasticciera.

Il sabato di Lazzaro, antica data della festa della Madonna delle Milizie, da Modica e dai centri vicini arrivavano nell’Ottocento a Scicli i fedeli e si acquartieravano sul piano dell’Oliveto aspettando la rievocazione del leggendario fatto d’armi del 1091. La Vergine invocata contro i saraceni era apparsa, secondo una pia tradizione, sul litorale di Donnalucata in soccorso delle esigue schiere di Ruggero il normanno.

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Questo narra la leggenda ma la paura e il fondato timore delle continue incursioni barbaresche sul litorale sciclitano avevano trovato nel celeste aiuto forse l’unico conforto contro un pericolo reale.

Poi, nel Novecento, dal piano dell’Oliveto la festa si spostò verso il centro città e in questa sede ormai è rimasta.

Nell’occasione, i palazzi spalancavano i loro splendidi salotti e offrivano ai loro ospiti il dolce per eccellenza, cioè la testa di turco. Era esibito in grandi vassoi su ricchi tavoli collocati negli angoli dei saloni, testimone di uno sfarzo che conservava ancora il magico sapore di un tempo andato, espressione e sintesi felice della vertigine barocca.

Nella prima metà del Novecento e, poi, nel Dopoguerra, intorno agli anni Cinquanta, a memoria mia, diverse pasticcerie e dolcieri a Scicli preparavano a regola d’arte teste di turco. Erano: lo storico caffè di donna Zudda La Cagnina, meglio conosciuta come “Bummarduna” ubicato nel bel mezzo di via Nazionale; il caffè Covato, in corso Garibaldi, i Neri, ecc...

Giovannino Neri e la madre donna Rosina fecero di questo dolce un personale cavallo di battaglia.

A Giovannino, negli ultimi anni della vita, chiesi la “sua” ricetta. La scrisse su un foglietto e me la regalò. Mi avvertì, però, che la ricetta era solo una traccia “perché la testa di turco è un dolce delicatissimo che spesso anche a me non riesce come dovrebbe”.

L’ultima volta che si utilizzò il forno a pietra della grande cucina della nostra casa di Scicli fu negli anni Sessanta del Novecento per cuocere proprio le teste di turco alla vigilia della festa della Madonna delle Milizie. Non crebbero tanto, nonostante mia madre avesse chiuso ogni ciuffo di pasta bignè dentro scatole di latta all’uopo preparate come anticamente usava per mantenerlo a una temperatura di cottura costante. Il forno era stato dismesso da parecchio ormai, a causa di una moderna tecnologia.

Fu il segno che meglio di qualsiasi altra cosa mi fece presagire il tramonto di un’epoca. Restò, però, in me intatto col ricordo familiare, il desiderio imperioso di santificare una festa che prima di essere spirituale era stata e ancora è un’insuperabile festa dei sensi.

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